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Bernard Friot: il salario a vita contro il capitalismo della rendita

Traduco – spero non malissimo – questo articolo pubblicato su l’Humanité il 18 marzo. Si tratta di un’intervista a Bernard Friot, leader della Réseau-Salariat, un’associazione di educazione popolare impegnata nel superamento della schiavitù del mercato del lavoro. Ho avuto modo di partecipare ad alcune iniziative della rete e trovo di grande ineteresse tanto le proposte avanzate, quanto la produzione culturale che le sostiene.

Nell’intervista, Friot interviene in merito ad uno dei punti della discussa loi travail promossa dal governo Valls. Una sorta di Jobs Act che il governo socialista, collega europeo del PD, regala ai lavoratori francesi. Chi avrà voglia di leggerla capirà, però, che di locale c’è ben poco e che anzi le categorie messe in campo alimentano un dibattito che travalica i confini nazionali.

Mi scuso per le eventuali imprecisioni nella traduzione o nelle note a fondo pagina. Né l’Humanité.fr né la réseau-salariat sono da ritenersi responsabili per tali errori. Chi ne trovasse, non esiti a segnalarmelo.

Titolo originale: Un capitalisme rentier qui n’assume plus d’être employeurIntervista realizzata da Olivier Morin – Venerdi, 18 Marzo, 2016 – L’Humanité

Creazione di un conto personale di attività (CPA), sviluppo dell’autoimprenditorialità, reddito di base… L’economista e sociologo Bernard Friot rimette in prospettiva questi elementi interrogandone il ruolo nell’economia capitalista. Leader de Réseau Salariat, associazione di eduzione popolare, avanza l’idea di un “salario a vita” come un diritto politico, al pari del diritto di voto.

OM – Nella sua analisi economica lei insiste sulla necessità che i diritti salariali siano inseparabili dalla persona, che vuole dire?

BF – Che il salario, come il diritto di voto, deve diventare un diritto politico. Il nostro lavoro è riconosciuto in tre modi:  da un imprenditore, se andiamo sul mercato del lavoro e siamo occupati; con la vendita di un prodotto del nostro lavoro sul mercato dei beni e dei servizi, se siamo indipendenti; attraverso il salario a vita, se siamo dei funzionari pubblici o dei pensionati. Ora, i lavoratori dipendenti e quelli indipendenti sono esposti a rischi sui quali, individualmente o collettivamente, non hanno alcuna presa. I capitalisti li sfruttano senza limiti. Il mercato del lavoro e quello dei beni e dei servizi non possono più essere il terreno fondamentale del riconoscimento del lavoro. Bisogna generalizzare il salario a vita, cioè un riconoscimento del lavoro che sia inseparabile dalla persona e non a un impiego o alla vendita di un prodotto. Il diritto politico del suffragio deve essere raddoppiato con il diritto politico al salario: ciascuno, dai 18 anni, ha diritto a un salario a vita corrispondente al primo livello della qualifica e supera nel corso della carriera (che sia indipendente, in impresa o funzionario) prove di qualifica che gli permettono di passare a livelli superiori, ogni avanzamento in termini di qualifica è da considerarsi a vita.

OM – Il Conto Personale di Attività1 è un passo in questa direzione?

BF – Sicuramente no. Al contrario, si tratta di un arretramento. Un conto personale, a partire dal primo di questi esperimenti (il conto pensionistico personale Arrco-Agiric) è costruito contro il regime generale, asservendo i lavoratori al mercato del lavoro perché è la performance occupazionale che alimenta il conto. Più ho dei lavori, e dei buoni lavori, più accresco i miei diritti in termini di giornate di riposo o di disoccupazione, di formazione, di pensione, di assicurazione complementare sanitaria, etc. Mentre il regime generale2 permette di prolungare nella pensione i salari migliori, il conto personale considera l’intera carriera, compresi i periodi in cui si è stati malpagati. Il CPA (conto personale di attività) non è quindi inscindibile3 alla persona, ma al suo percorso professionale, che non ha nulla a che vedere con la persona.

OM – Può precisare in che senso questo non ha nulla a che fare con la persona?

BF – La pensione, nella funzione pubblica, è il proseguimento a vita del miglior salario e non la contropartita della contribuzione durante la carriera. La pensione è un diritto indipendente dal percorso professionale visto come sommatoria di punteggi. Dipende, piuttosto, dalla qualifica della persona, qualifica che, appunto, è a vita. Mentre la pensione Arrco-Agirc è un reddito differenziato che dipende strettamente dalla performance sul mercato del lavoro nell’arco di 42 anni, la pensione della funzione pubblica prolunga a vita il salario maturato a fine carriera.

OM – Dire (come fa il governo ndt) che un “diritto è inseparabile dalla persona” sarebbe quindi un abuso di linguaggio?

Evidentemente. Il CPA fa strettamente dipendere i diritti dall’occupazione. Si tratta però dell’occupazione così come la intendono i capitalisti, non è più «l’occupazione-posto (di lavoro ndt)», ma «l’occupazione-percorso». Il capitalismo finanziario non vuole più restare intrappolato nella stabilità dei posti di lavoro e mantenere il legame tra diritti e posto di lavoro: si sforza di ottenere dei lavoratori il più possibile mobili e, quindi, pretende che i diritti siano collegati al percorso professionale. Ora, mi si dimostri che il percorso professionale è gestito dal lavoratore più che il suo posto di lavoro! Nella realtà il lavoratore non gestisce né l’uno né l’altro. E passare ai diritti inseparabili dal percorso non è in alcun caso un passo verso l’inseparabilità dei diritti dalla persona. Affinché un lavoratore sia titolare di diritti inseparabili dalla sua persona, bisogna che questi diritti lo liberino dai pericoli del mercato del lavoro e del mercato dei beni e dei servizi.

OM – Il CPA è legato all’impiego. Ora, nessuno (lavoratori e padroni) si dichiara contro l’occupazione. La nozione di occupazione è senza dubbio mal definita…

BF – È frutto della lotta delle classi. L’invocazione dell’occupazione serve essenzialmente al padronato e al governo che, in nome del «salvataggio dell’occupazione», attaccano i diritti dei lavoratori. Per i padroni, l’occupazione è sempre stata ridotta a un posto di lavoro o, come oggi, a un percorso dato dal passaggio tra un posto di lavoro e l’altro. Tanto «l’occupazione» è stata una parola del vocabolario sindacale, poiché costruita nella lotta come obbligo al rispetto della qualificazione del posto e dei versamenti per la contribuzione sociale, altrettanto, oggi, l’occupazione è intesa come il posto nudo  o un percorso fatto di passaggi tra posti nudi. Insomma, alla fine è la definizione padronale dell’occupazione che oggi conta.

OM – Si arriva così all’egemonia del vocabolario della classe dominante. Egemonia tradotta nei fatti…

BF – È là che bisogna uscire dalla dipendenza diretta dell’agenda dei padroni. Ciò significa promuovere il «vero impiego4» di fronte «al falso impiego» padronale? No. È una battaglia persa da quarant’anni. Fare della battaglia per il «vero impiego» il cuore dell’azione sindacale mi sembra un errore strategico di prim’ordine. I diritti legati al posto o ai percorsi sul mercato del lavoro restano nella disponibilità dei proprietari dei mezzi di lavoro, che decidono tanto dei posti che dei percorsi. Fondare dei diritti su ciò di cui i lavoratori non dispongono non ha più alcun senso. Non c’è più una sola impresa o un solo settore che funzioni con ciò che si usava chiamare mercato interno, in cui le carriere si costruivano senza passare dal mercato del lavoro. È finita. Anche se l’occupazione è stata una vittoria sindacale ed è stata, nel caso del mercato interno, il supporto di percorsi professionali liberati dai rischi del mercato del lavoro – a condizione di restare nella stessa impresa a vita: possiamo anche non vedere questo come un progetto –, oggi ciò non può, in nessun caso, essere il fondamento di una strategia sindacale. Una cosa è riqualificare in impiego quelle situazioni di infra-impiego5, caso per caso, con il ricorso ai giudici del lavoro6: è indispensabile e ci si deve battere contro le riforme che rendono questa riqualificazione sempre più difficile. Tutt’altra cosa, però, è fare del «vero impiego» un progetto strategico.

OM – Un passaggio sulla definizione di infra-impiego?

BF – L’infra-impiego qualifica due tipi di situazioni. Da una parte quelle in cui si dipende da un imprenditore in quanto stagista, volontario, in servizio civile, in formazione e, più generalmente, tutte quelle situazioni in cui l’impiego non è riconosciuto come portatore in sé di una qualifica. Dall’altra, ci sono quelle situazioni in cui si è falsamente indipendenti, come nel caso dell’autoimprenditorialità. Falsamente perché in realtà si dipende interamente dallo stesso committente, o dallo stesso fornitore (di dati numerici ad esempio, nell’economia presumibilimente collaborativa)… salvo che non versa i contributi, che il lavoratore non ha il diritto alla disoccupazione, che le regole orarie o della sicurezza sono inesistenti, etc.

OM – L’autoimprenditorialità è, forse, il riflesso dell’aspirazione della gioventù a non dipendere dall’imprenditore. I capitalisti ne traggono un vantaggio?

BF – Non posso che salutare la maturità politica di quanti, tra i giovani, non vogliono sottomettersi a dei datori e preferiscono gestire il loro lavoro rifiutandosi di produrre delle cose di cui conoscono la nocività o l’inutilità. Ciò detto, tutto dipende dal come è istituito il lavoro indipendente. Infatti, può essere interamente recuperato dal capitale attraverso dei dispositivi grazie ai quali i giovani in questione sono autonomi nel loro lavoro, collaborano senza gerarchia, orizzontalmente… alimentando, però, con il lavoro gratuito, per esempio nel software libero, il profitto dei proprietari, ad esempio di Google. Si sviluppa così un capitalismo della rendita che non si assume la responsabilità del datore di lavoro, che fa ricadere sui lavoratori la valorizzazione del loro lavoro sul mercato dei servizi: bisogna vendere 150 km di passaggi in auto, una settimana del proprio appartamento,  con la spaventosa mercificazione del quotidiano che tutto ciò rappresenta. Esattamente come i lavoratori subiscono il giogo dei pericoli del mercato del lavoro, questi indipendenti sono sottomessi al giogo del mercato dei beni e dei servizi, alimentando la rendita di chi possiede le banche dati ed è ormai deresponsabilitato dalla gestione del lavoro.

OM – C’è dunque una volontà dei capitalisti di sottrarsi al proprio ruolo di datore di lavoro?

BF – Sì, non vogliono più legare il loro profitto al fatto di assumere con un salario di lungo termine, con delle contribuzioni sociali, con il funzionamento di un comitato di igiene e di sicurezza, con i diritti delle CE, etc. È per questo che continuano, ininterrottamente dal 1992, con la CFDT7, a costruire una «sicurezza dei percorsi» che ribalta la logica della responsabilità. Non sono più gli imprenditori, ma gli intermediari del mercato del lavoro, insomma «gli uffici di colocamento8»! E i diritti dei lavoratori sono rimandati alla loro capacità di alimentare un CPA proporzionato della loro performance sui mercati, che siano dei lavoratori o dei beni, sui quali loro non hanno alcuna presa. Perché uno dei punti della legge sul lavoro, scarsamente sottolineato, è l’estensione del CPA agli indipendenti. Si avranno, dunque, diritti nati nell’occupazione dipendente, fungibili a quelli nati nell’indipendenza: inutile dire che tutto ciò sarà largamente strumentalizzato.

OM – Parallelamente a questa produzione di valore, effettuata al di fuori del contratto di lavoro, si sviluppa anche l’idea di un reddito di base…

BF – Ma la direzione è la stessa. La rete di sicurezza offerta dal reddito di base è la condizione dell’arretramento della sicurezza offerta dal codice del lavoro. Se il capitale non è più obbligato a farsi carico della sicurezza dell’impego, in cambio di ciò non avrà alcun problema ad assumersi la responsabilità del finanziamento per un minimo di sicurezza che gli permetterà, non solo di abbassare i salari invocando l’esistenza di queste stesse risorse per non praticare dei salari normali, ma anche di recuperare il valore prodotto da queste persone al di fuori dell’impiego, giacché la proprietà lucrativa9 non è stata soppressa. Poiché il reddito di base non sopprime la proprietà lucrativa, e i capitalisti saranno messi in condizione di recuperare il valore prodotto. E non sono loro che pagheranno, perché è la fiscalità generale che finanziaerà il reddito di base. In breve, i capitalisti hanno tutti gli interessi nell’isituzione di un reddito di base accanto a un CPA esteso agli autonomi, puntello per l’autoimprenditorialità.

OM – Quale alternativa propone?

BF – Il salario a vita, che è inseparabile dalla coproprietà d’uso di tutti i mezzi di produzione per i lavoratori e quindi della loro gestione negli investimenti, tanto è vero che la proprietà lucrativa, cuore del capitalismo della rendita, deve essere soppressa. Si tratta di riprendere la battaglia che ha portato alla messa in pratica della Liberazione del regime generale10 come cassa unica a gestione operaia, e dello statuto della funzione pubblica. Il regime generale ha dimostrato, fino agli anni ’70, che possiamo produrre la salute con dei lavoratori pagati a vita, che siano funzionari o indipendenti convenzionati, senza mettere a valore nessun capitale azionario o creditizio: l’investimento ospedaliero degli anni 60 è stato largamente sovvenzionato grazie all’innalzamento dei tassi della contribuzione malattia. Noi possiamo produrre tutto senza occupazione e senza capitale. Non è il 45% del salario che deve andare alle casse della sicurezza sociale come oggi, ma il 100% (e al solo regime generale che, di nuovo a gestione dei lavoratori, sarà incaricato di pagare i salari a vita). Il resto del valore aggiunto potrebbe dividersi tra l’autofinanziamento dei mezzi di lavoro decisi dai lavoratori coproprietari delle imprese e la contribuzione economica a delle casse, anch’esse gestite dai lavoratori, incaricate di sovvenzionare il resto dell’investimento (compresi dalla creazione monetaria senza credito) e di assicurare le spese dei funzionamenti correnti dei servizi pubblici. Su questo rinvio ai lavori che la Réseau Salariat conduce su questi argomenti.

 

1. Il CPA è una delle misure della tanto contestata Loi Travail. Nelle note esplicative disposte dal Governo Valls il CPA – “permette a tutti gli attivi di capitalizzare dei diritti lungo l’intero percorso professionale. Questi diritti acquisiti saranno inscindibili dalle persone; potranno utilizzarli quando necessario, per esempio per acquisire nuove ocmpetenze. I lavoratori dipendenti e autonomi ne beneficieranno dal primo Gennaio 2017”.

2. Nel testo originale “régime général“, è uno dei meccanismi assicurativi per i lavoratori francesi. Esistono altre casse, quella del regime dei lavoratori non dipendenti e quelle dei regimi speciali.

3. Nel testo originale “attaché”.

4. Nel testo originale “emploi“. L’uso nella traduzione come “impiego” o come “occupazione” è una scelta del tutto mia, per cercare di rendere meglio il senso dell’espressione.

5. Nel testo originale “infra-emploi”. Il primo riferimento che sono riuscito a trovare al concetto risale ad un seminario del 1999 tenutosi all’Université de Paris XIII : av. J.B. -Clément, 93430 Villetaneuse et EA 2252 ITEEM Poitiers. Si tratta di una nozione qualitativa che esprime il lavoro in assenza di statuto preciso e da una remunerazione inferiore al minimo legale, fino alla sua totale assenza. Per esempio, stage non pagati e fuori dai contratti imposti ai giovani per ottenere un contratto a tempo indeterminato; si situa al limite della legalità e  contrairement au sous-emploi, non ha carattere quantitativo – estratto da AUTOUR DE L’EMPLOI ET DU CHOMAGE.

6. Nel testo originale “prud’homme”. Nel diritto del lavoro francese si tratta di un’istituzione non molto diversa da quella del Tribunale del lavoro italiano, ma con alcune particolarità di estremo interesse – come il carattere elettivo – oggi messo in discussione.

7. La CFDT è la Confédération française démocratique du travail, si tratta del più grande sindacato francese, di origine cristiana oggi centrista, insieme al MEDEF nel 2013 ha firmato il progetto di sécurisation de l’emploi, favorendo le politiche neoliberali del governo francese.

8. Nel testo originale “pôle emploi“.

9. La proprietà lucrativa è sovrapponibile a quello di profitto. Bernard Friot la definisce come quel patrimonio che non si consuma personalmente (a differenza della proprietà d’uso), per estrarne una rendita sottoforma di affitto, o di rendimento di un portafoglio azionario, dei profitti di un’impresa. Si tratta del principale ostacolo alla proprietà d’uso, in particolare in materia di alloggio e di lavoro. È la sua scomparsa che permetterà la generalizzazione della proprietà d’uso del suolo, dell’alloggio e delle imprese (L’enjeu du salaire, 2013: 191).

10. Nel testo originale “impôt“.