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Il lavoro gratuito tra emersione ed emergenza [segnalazione articolo]

[il testo è estratto da Il lavoro gratuito tra emersione ed emergenza, pubblicato sulla rivista quadrimestrale dell’IRES CGIL Emilia-Romagna – ERE Emilia Romagna Europa, N.17/18 / Dicembre 2014; pp. 39-44]

Circa un mese fa, infastidito dall’idea di dover fare il viaggio Bologna-Roma in una macchina vuota ho pensato di iscrivermi ad uno di quei siti per autostoppisti 2.0, di quelli cioè in cui il passaggio in macchina lo si cerca/offre da casa, fissando un appuntamento preciso e basando la propria scelta sui feedback lasciati dagli altri utenti. Al ritorno, mentre accompagnavo i miei passeggeri, mi sono imbattuto in una coppia di giocolieri che al semaforo intrattengono gli automobilisti per un’offerta. Per quanto non sembrassero disperati, guardandoli, una ragazza nella mia macchina mi spiega come si sentisse fortunata, lei, ad aver trovato un lavoro giusto in tempo, prima della crisi che ormai mette in ginocchio anche Bologna. Stanco del viaggio pensavo di chiudere velocemente la conversazione sottolineando che, dal suo punto di vista, ciò che mancava ai due giocolieri davanti a noi non fosse tanto un lavoro, quanto un salario. Inutile dire che la conversazione non si è mai chiusa.
Eppure, quello che intendevo dire non mi sembrava particolarmente provocatorio e si regge, anzi, su una delle convenzioni più solide del capitalismo: affinché vi sia lavoro, una qualsiasi attività, utile o meno che sia, deve essere messa a produrre valore economico (profitto) e riconosciuta produttiva attraverso l’erogazione di un salario. Che l’esito dell’attività in questione sia utile, bello, dannoso o meno, non ha alcuna importanza. Se quei due giocolieri avessero lanciato le loro clavette in un contesto formalizzato di un’impresa circense non avrebbero prodotto nulla di più utile o di più bello, ma sarebbero stati dei lavoratori perché avrebbero visto la loro attività concreta, lanciare delle clavette per divertire un pubblico, astrarsi in una misura – convenzionale anch’essa – del valore economico prodotto.
Per quanto così sommariamente ripresi, i concetti marxiani di valore d’uso e valore economico, di lavoro concreto e lavoro astratto risultano estremamente utili per mettere a fuoco ciò di cui dovrei parlare davvero in queste poche pagine e cioè del perché abbia senso parlare di lavoro gratuito.
Sono così utili che in prima battuta proprio pensando al “lavoro gratuito”, non ci sarebbe molto altro da aggiungere né di particolarmente sorprendente. Al contrario, l’intero processo di accumulazione e di riproduzione del capitale, così come è stato analizzato da Marx, si reggerebbe proprio sull’esistenza di una differenza tra il valore economico prodotto dal lavoratore e quello convenzionalmente attribuitogli attraverso la misura del tempo e, quindi, retribuito dal datore di lavoro. Marx chiamava questa differenza plusvalore e, in quest’ottica, il profitto è il risultato della produzione di valore economico, cioè del lavoro, non retribuita, cioè gratuito.
Ora, per quanto un’interpretazione di questo genere sembri non lasciare molti spazi ad ulteriori ragionamenti, lo si capisce bene, affermare che un’attività lavorativa possa essere gratuita non è cosa da poco. Anche più complesso è poi accettare l’idea che in assenza di una remunerazione economica l’attività in questione sia davvero gratuita, priva cioè di riconoscimenti, come se solo il riconoscimento economico possa costituire una valida motivazione all’impegno lavorativo. Non è però solo per questi elementi di ambiguità che il “lavoro gratuito” assume nel dibattito contemporaneo, anche in Italia, un peso crescente1.
Per dar conto di questa emergenza, o forse emersione, userei lo spazio che mi resta evocandone gli elementi costitutivi che sintetizzano i piani su cui tracciare alcune dimensioni di analisi: quella produttivo-organizzativa e quella istituzionale.

NUOVI TERRITORI DELLA PRODUZIONE
Come visto con l’esempio dei giocolieri, la possibilità che una data attività possa essere riconosciuta come lavoro riguarda solo in minima parte il contenuto dell’attività stessa. Ma gli esempi cui è possibile ricorrere sono praticamente infiniti. La dinamica attraverso cui elementi formalmente esterni ai processi produttivi vi vengono via via integrati è, infatti, alla base della longevità del sistema capitalista, capace di rigenerare se stesso proprio a partire da quei territori – non solo geografici2 – non ancora colonizzati. È anzi la critica alla rigidità del sistema industriale che, secondo Boltanski e Chiapello, una volta assorbita dal sistema stesso, arriva a costituire le basi del nuovo assetto retorico fondato sui progetti (cité par projets), in cui a dominare sono la flessibilità, la messa in discussione delle gerarchie e il nomadismo reticolare applicato al lavoro (1999). Facendo propria la “critica artistica” al capitalismo industriale, così come gli autori l’hanno definita, il nuovo capitalismo ha imparato a trarre valore da quegli elementi vocazionali che poco hanno a che fare con il lavoro strettamente fordista. Non a caso nel dibattito italiano la nozione di lavoro gratuito è spesso declinata nella doppia accezione di free work: lavoro gratuito, sì, ma anche lavoro libero. Gli elementi vocazionali, la passione per il proprio lavoro e la centralità che in questa hanno i contenuti immateriali, relazionali e creativi della propria professione sono alcuni degli aspetti che delineano i nuovi territori della produzione. Il lavoro che sfugge alle coordinate spazio-temporali della disciplina fordista sfugge, però, anche a quei parametri che ne hanno costituito per decenni i criteri convenzionali di remunerazione3. Lo si osserva bene nel complicato universo dei cosiddetti lavoratori cognitivi4, per i quali può non risultare facile ottenere un riconoscimento al mosaico di competenze che si cerca di far valere sul tavolo della contrattazione individuale che non si riduca – il riconoscimento – ad una nuova tessera colorata, una nuova competenza da aggiungere al CV. Che non sia, insomma, la speranza di un lavoro futuro a pagare il lavoro di ieri nella reiterazione della promessa5. Un rischio, questo, che non riguarda solo i tanti modi formalizzati con cui il lavoro produttivo si veste da esperienza formativa, ma soprattutto le tante occasioni in cui un lavoro, sebbene mal pagato, offre quella possibilità “di fare rete”, di “stare su un certo progetto” o di “fare una certa esperienza”, che, si spera, possa ripagare in futuro il mancato riconoscimento di oggi.
Il rinvio del godimento (salariale) non riguarda però solo la conoscenza. L’emergenza data dalle continue riduzioni di spesa pubblica offre, anzi, ampi spazi alla valorizzazione della solidarietà e della sensibilità al sociale di quanti immaginano il proprio futuro lavorativo nel sistema dei servizi alla persona. È in quest’ottica, dell’imprenditorializzazione, che può essere guardato l’interesse al “riconoscimento e valorizzazione delle competenze […] nei percorsi di istruzione e in ambito lavorativo” contenuto tra i principi direttivi della delega al governo per la riforma del Terzo Settore6. L’approccio è quello del consolidamento dell’intreccio tra lavoro gratuito e retribuito 7 così come proposto da Eurofound rispetto alla certificazione delle competenze acquisite con il volontariato, svolto in varie forme, per organizzazioni operanti negli ambiti più vari 8.
Infatti, per estendere la logica dell’investimento al di fuori delle attività formative è necessario puntare ad un sistema di certificazione delle competenze credibile che possa giustificare, agli occhi dei lavoratori, condizioni particolarmente svantaggiose, sul piano della retribuzione e dell’esigibilità dei diritti, tanto quanto su quello formativo. Così, se da un lato il sistema produttivo estrae valore dagli elementi vocazionali dell’attività dei lavoratori, solidarietà, passione, voglia di partecipare/aiutare/comunicare/ creare etc., dall’altro legittima questo super profitto attraverso la pressione all’imprenditorializzazione del lavoro stesso. Anche perché se è vero che, come afferma l’economista spinoziano F. Lordon, il miglior modo per far “marciare” i dipendenti di una certa impresa è quello di arrivare ad una “colinearizzazione” tra i desideri dei dipendenti e quelli dell’impresa stessa (2010) è forse anche meglio, per un’organizzazione produttiva, poter contare sul lavoro di chi pur non aspettandosi nulla dai desideri altrui ritiene, lavorando, di soddisfare i propri.

IL LAVORO PRIMA DI TUTTO
Il ruolo giocato dall’istituzionalizzazione di queste dinamiche è evidente e non si limita alla progressiva liberalizzazione dei servizi agli utenti, quindi anche dei diritti dei cittadini, che organizzazioni, più o meno profittevoli, gestiscono già oggi. L’accento che le politiche del lavoro e di contrasto alla povertà pongono sull’attivazione è, infatti, cruciale nel ragionamento che provo a fare sul lavoro gratuito. A trasformarsi non sono solo i diritti del lavoratore-cittadino, ma anche il terreno dell’esigibilità stessa di quei diritti, ormai trasferita dal lavoro al mercato del lavoro, dall’occupazione all’occupabilità ponendo, nella logica del potenziamento individuale, il principio di concorrenza tra i lavoratori al centro dei meccanismi di protezione sociale (Friot, 2011). Il modello di riferimento è quello del welfare attivo (workfare), che trasla il concetto di attivazione, tradizionalmente legato alla partecipazione individuale al lavoro di comunità e sociale, in un quadro in cui il lavoro per il mercato – o il tentativo per accedervi – è, anche prescindendo dalla sua qualità, occasione di merito individuale (Borghi e Rizza, 2006: 62). A questa logica, possono essere ricondotte le diverse formule che in Italia, e non solo, costituiscono le modalità di accesso ai meccanismi di sostegno al reddito. È il caso della Dichiarazione di Immediata Disponibilità al lavoro necessaria per accedere ad ASPI e miniASPI e Cassa Integrazione, ma anche l’obbligo a partecipare a percorsi di riqualificazione individuali (corsi, tirocini etc.) pena il decadimento del diritto all’indennità. Anche quando la tutela c’è, insomma, sembra orientata più a garantire la buona condotta del tutelato nel futuro che non dalle difficoltà già occorse anche a prescindere dalla sua volontà.
Negli Stati Uniti, l’implementazione di politiche di workfare costituisce forme di invisibilizzazione del lavoro che possono sembrare lontane dalla tradizione europea. Ma i rischi di precarizzazione e gratuitizzazione – se mi è permessa la cruda traduzione di gratuitisation usato da Simonet e Krinsky in un loro recente articolo (2013) – del lavoro non sembrano poi così remoti. Basta guardare all’effetto di sostituzione, che inizia a rilevarsi anche statisticamente, di lavoratori pubblici in settori come quello sanitario a beneficio dei lavoratori di imprese private che, pur svolgendo lavori analoghi ai primi, sperimentano condizioni di impiego decisamente diverse e che al momento non sembrano avere spazi di miglioramento. Anche perché se la prospettiva della riqualificazione può funzionare per specifiche figure professionali e in certi settori, più difficile è immaginare una via di uscita dal processo di invisibilizzazione per quanti sono impiegati nelle posizioni meno qualificanti. Il rischio, evidente, è che la logica correttiva delle condotte individuali sottesa alle retoriche dell’attivazione-a-qualsiasi-costo possa istituzionalizzare quelle segmentazioni già prodotte dal mercato. Coerentemente a questa prospettiva, infatti, sono i senza- lavoro con i loro percorsi ad essere fatti oggetto di intervento. Alcuni, i più qualificati, torneranno in breve tempo sul mercato; altri, “incorreggibili”, non potranno fare a meno di supporti e misure di intervento diretti; mentre altri ancora continueranno a transitare da un lavoro sottopagato ad un altro espiando, con la dequalificazione professionale, la colpa di un percorso fallimentare. Una prospettiva non dissimile, per la verità, a quanto osservato da due psichiatri, nel 1967, rispetto alla correzione delle patologie dei pazienti manicomiali attraverso attività da lavoro. Slavich e Comba riflettono sul fatto che l’esperienza lavorativa ha agevolato la suddivisione in classi dei pazienti che ne venivano in contatto: «da un lato coloro che si riteneva possibile curare con altri mezzi, per restituirli al più presto “reintegrati” alla società; poi quelli che rimanevano rinchiusi come oggetti passivi di assistenza; e coloro, infine, che avrebbero riacquistato lentamente la loro libertà all’interno dell’ospedale lavorando nella – e per la – istituzione, reintegrandosi ed adattandosi in tal modo alla microsocietà istituzionale» (Slavich e Comba, 1967: 70). Inutile dire che anche nel caso citato la remunerazione del lavoro costituiva un problema di non poco conto.
Che se ne enfatizzi la dimensione emancipatrice o quella ricattatoria, il lavoro gratuito costituisce un terreno di analisi di estremo interesse per la ricerca. Vorrei però concludere provando a sottolineare perché, oltre la questione della riappropriazione della ricchezza prodotta, il lavoro gratuito potrebbe costituire un terreno di riflessione importante anche per il sindacato. Due sono gli elementi che provo a rilevare. Il primo, di cui in parte ho già detto, attiene alle definizioni che delimitano le nozioni chiave: il lavoro e la sua valutazione, il tempo; il secondo, difficilmente separabile dalla questione delle definizioni, riguarda invece il potere e la sua riproduzione.
Nella ricerca che sto svolgendo sul tema del lavoro gratuito la nozione di lavoro è costantemente messa in discussione dagli intervistati. I confini che separano il lavoro dal non lavoro appaiono deboli e la retribuzione, così come altri aspetti formali, non costituisce un riferimento utile alla definizione di ciò che debba o meno essere considerato lavoro. La retribuzione diventa piuttosto lo strumento attraverso il quale il datore di lavoro attribuisce valore all’attività svolta, spesso seguendo logiche eterodirette anche rispetto all’organizzazione e che informano la tensione tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Frequentemente, infatti, i criteri di valutazione sono distanti da quelli usati per mobilizzare le soggettività dei lavoratori, così come da quelli adottati dai lavoratori per trarre soddisfazione dal proprio operato. Un esempio è quello di un’associazione che in Francia si occupa di richiedenti asilo e le cui dinamiche rilevate non sembrano distanziarsi da quelle genericamente riconducibili all’economia sociale. La consapevolezza dell’importanza del ruolo ricoperto costituisce, per i lavoratori dell’associazione, la principale motivazione ad un lavoro emotivamente e materialmente estenuante, in cui, come ha sintetizzato un’intervistata, «ogni errore è fatale» per qualcuno e nel quale praticamente non esistono routine o orari. Nonostante il particolare stato di bisogno degli utenti porti alla moltiplicazione delle attività dei lavoratori, solo alcune sono effettivamente prese in considerazione dall’organizzazione, quelle rendicontabili, quelle cioè sulla base delle quali l’associazione costruisce la propria sostenibilità economica9. Il senso di ingiustizia si fonda quindi non tanto sul basso salario o sulla quantità di ore e attività svolte gratuitamente, ma sulla discrepanza tra ciò che i lavoratori considerano lavoro e ciò che è riconosciuto come lavoro. Oltre all’impatto sui beneficiari dei servizi offerti, lungo questa stessa faglia sono rintracciabili quei meccanismi di produzione della diseguaglianza interna all’organizzazione che, una volta istituzionalizzati, la giustificano.

1 Vedi il numero monografico di Sociologia del lavoro, 133/2014, dedicato al lavoro emergente e la conferenza internazionale di giugno 2014 della rivista Etnografia e ricerca qualitativa con un board dedicato al lavoro gratuito: It’s a free work… when working relations became passionate.

2 In L’anti-Edipo (1972) Deleuze e Guattari evidenziano come il capitalismo accresca i propri spazi di dominio attraverso una continua ridefinizione dei codici (diritto, cultura, politica etc.) dominanti che rendono coerente un territorio. Il riferimento qui è perciò alla ridefinizione in senso espansivo delle “frontiere del capitale”, come le chiamano Mezzadra e Neilson (2014).

3 Sul salario come convenzione un contributo importante è quello di Olivier Favereau (2006).

4 Nell’indagine di Ires Emilia-Romagna, Toscana e Veneto sul lavoro cognitivo, Lavoro, Conoscenza, Sindacato. Una ricerca tra i lavoratori cognitivi, è emerso come la continuità e l’esigibilità della remunerazione siano tra le questioni più diffuse.

5 Terre promesse è la serie di articoli sul lavoro gratuito pubblicati su il Manifesto dal 22.10.2014.

6 In particolare il comma “g” dell’articolo 5 della Delega al Governo per la riforma del Terzo Settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio Civile Universale.

7 Si tenga conto che l’accordo del 23 luglio tra le Organizzazioni Sindacali ed Expo S.p.A. contempla il volontariato, lavoro gratuito, per una Società per Azioni. Tra i vari commenti sul tema, segnalo quello del blog “La furia dei cervelli”, all’indirizzo http://furiacervelli.blogspot.it/2013/07/expo-2015-in-18500-lavoreranno-gratis.html.

8 Second European Quality of Life Survey. Participation
in volunteering and unpaid work (Eurofound, 2011).

9 Le sovvenzioni pubbliche sono generalmente legate alle attività quantificabili di accoglienza. Nel Programma Annuale 2013 relativo al Fondo Europeo per i Rifugiati reperibile dal sito del Ministero dell’Interno, ad esempio, i risultati attesi sono in forma di indicatori quantitativi.

BIBLIOGRAFIA

Boltanski L., Chiapello E. (1999), Le nouvel esprit du capitalisme, Paris, Editions Gallimard.
Borghi V., Rizza R. (2006), L‘organizzazione sociale del lavoro Lo statuto del lavoro e le sue trasformazioni, Milano, Bruno Mondadori.
Deleuze G., Guattari F. (1972), L’Anti-Oedipe, Paris, Minuit, trad. It. L’Anti-Edipo – Traduzione di A. Fontana (2002), Torino, Einaudi.
Eurofound (2011), Second European Quality of Life Survey. Participation in volunteering and unpaid work, Louxembourg, Publications Office of the European Union.
Favereau O. (2006), L’economia delle convenzioni e la teoria dei salari, in Borghi V. e Vitale T. (a cura di), Sociologia del Lavoro N. 104 IV/2006 Le convenzioni del lavoro, il lavoro delle convenzioni.
Friot B. (2011), Le déclin del’emploi est-il celui du salariat? Vers un modèle de la qualification personnelle, Travail et Emploi 126 (avril-juin 2011).
Krinsky J. e Simonet M. (2013), La servitude et le volontaire: les usages politiques du travail invisible dans les parcs de la ville de New York, Sociétés contemporaines, 2012/3 n° 87: 49-74. DOI : 10.3917/soco.087.0049.
Lordon F. (2010), Capitalisme, désir et servitude: Marx et Spinoza, Paris, La Fabrique.
Mezzadra S., Neilson B. (2014), Confini e frontiere La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Bologna, Il Mulino.
Slavich A., Comba L. J. (1967), Il lavoro rende liberi? Commento a due assemblee di comunità dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, in Franco Basaglia (a cura di), Che cos’è la psichiatria? Torino, Einaudi: 69-151.