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L’industria casearia in Emilia-Romagna e Lombardia [segnalazione]

Nel 2013 la FLAI, Federazione Lavoratori dell’Agroindustria della CGIL, ha commissionato all’IRES dell’Emilia-Romagna una ricerca sulla filiera del produttiva del latte alimentare in Emilia-Romagna e in Lombardia.

A quella ha fatto seguito una seconda ricerca, sempre commissionata dalla FLAI all’IRES. Per completare il quadro, stavolta l’oggetto è stato l’industria casearia (qui o qui il rapporto).

In basso la presentazione per il convegno “il futuro del latte in val padana“, organizzato dall’ACCADEMIA DEI GEORGOFILI SEZIONE NORD-OVEST (13 Marzo 2015)

(visualizza in Prezi)

Questa la sintesi preparata da Daniela Freddi  – coautrice insieme a Davide Dazzi e me, per il capitolo dedicato alle Private Label – per la presentazione pubblica avvenuta il 23 febbraio presso la Camera del Lavoro di Reggio Emilia.

L’analisi condotta ci restituisce un quadro ricco ed approfondito sia del settore caseario italiano nella sua complessità che di alcune specificità territoriali di Lombardia ed Emilia-Romagna. Come abbiamo messo in luce nella prima parte del lavoro di ricerca, il termine “formaggio” cela dietro di sé prodotti, processi produttivi e dunque mercati ed organizzazioni del lavoro profondamente diversi. Per questo uno degli obiettivi della ricerca è stato proprio quello di individuare le specificità produttive e territoriali che si incontrano nell’analisi dell’intero comparto. Sebbene le differenze interne al settore siano significative, è possibile tracciare alcune tendenze comuni da cui riteniamo opportuno partire.

In primo luogo tutto il comparto caseario è sottoposto ad una forte pressione sul prezzo del prodotto e dunque sui costi di produzione. Questa tensione è generata prevalentemente da due elementi. Innanzitutto i dati mostrano che il formaggio viene venduto in larghissima parte da esercizi commerciali della Grande Distribuzione, che per mezzo delle centrali di acquisito ha proceduto ad una concentrazione di mercato all’atto dell’acquisto dei prodotti, aumentando il proprio potere contrattuale nei confronti dei produttori, e dall’altro, con l’espansione dei marchi privati (Private Label) è riuscita ad entrare e di fatto dominare la filiera produttiva condizionando anche i player detentori di prodotti di marca.

In seconda battuta la recessione, iniziata alla fine del 2008, è nel 2012 che inizia far sentire gli effetti sui consumi, causandone una contrazione. Per i produttori di formaggio in sostanza, schiacciati dal calo dei consumi e dalla concorrenza delle Private Label (PL) che offrono, per chi opera in questo segmento, una marginalità molto bassa, vendere è diventato difficile. I prodotti di marca o di maggiore pregio, come i grana, riescono a trovare spazio nel mercato quasi esclusivamente grazie alle campagne promozionali delle catene distributive, con ripercussioni notevoli sulla programmazione dell’attività produttiva e sul lavoro. Una misura dell’importanza delle campagne promozionali per le imprese che vendono prodotti di marca è data da un’affermazione emersa nel corso dei nostri studi di caso: “se per una determinata catena distributiva si vendono normalmente 100 cartoni alla settimana, in promozione dello stesso prodotto in 15 giorni se ne vendono 15.000 cartoni”. A fronte di questi volumi e dello scarso preavviso, la produzione e il lavoro riescono solo parzialmente ad essere programmati, ciò porta a significative difficoltà gestionali ed elevati livelli di stress dovuti alla necessità di gestire elevati volumi produttivi in un arco di tempo limitato. La gestione di questa dinamica rappresenta una delle maggiori criticità sia sul lato della direzione della produzione che sul lato del lavoro, con ricadute sulle relazioni industriali. La flessibilità produttiva è una delle leve competitive più importanti per le aziende e al contempo uno degli elementi fonte di maggiori criticità sul lavoro, dunque uno dei fattori più delicati in sede di contrattazione.

Oltre all’incremento della flessibilità le aziende di trasformazione si sono fortemente impegnate, al fine di favorire la competitività e lo sviluppo, nell’incrementare le vendite sul mercato italiano e su quello estero mediante investimenti nell’ampliamento della gamma di prodotto, in innovazioni nel packaging e in attività volte all’aumento delle esportazioni. Il mercato estero è quello che offre maggiori possibilità, quello italiano infatti viene ritenuto saturo, poco dinamico e, come detto, in contrazione. Diversamente altri mercati, europei ma soprattutto extraeuropei vengono giudicati interessanti e in espansione. Il prodotto agroalimentare italiano è generalmente molto apprezzato, a tal punto che, dove le imprese italiane non sono riuscite ad arrivare con i propri prodotti questi sono stati imitati e realizzati localmente da imprese straniere. L’innovazione, che nelle sue varie forme è un elemento fondamentale per lo sviluppo d’impresa, trova spazi diversificati all’interno del comparto. La convivenza all’interno del settore di produzioni fortemente tradizionali, contraddistinte dal marchio DOP, e di segmenti ad alta potenzialità evolutiva rispetto alle qualità intrinseche del prodotto o alle modalità di consumo rendono gli spazi e gli slanci innovativi altamente differenziati e non generalizzabili.

Una secondo elemento trasversale al comparto è lo spazio molto vasto che le PL hanno saputo in breve tempo conquistare sul mercato. Le marche private operano per tutti i tipi di formaggio, come abbiamo documentato nel capitolo del rapporto dedicato a questo tema. Come abbiamo visto, esistono imprese specializzate in questo segmento di mercato a fianco di imprese con prodotto di marca con linee di produzioni o, in alcuni casi, stabilimenti specificatamente dedicati a questa linea di prodotto. Avere linee o stabilimenti dedicati risulta necessario per operare nel mercato PL, che genera una marginalità minima a fronte di una richiesta di flessibilità produttiva molto alta.

Una terza dinamica che accomuna i diversi segmenti del settore è l’abolizione delle quote latte prevista per il 2015. Al netto di alcuni elementi discordanti che le analisi previsionali hanno, è condivisa l’attesa della riduzione del prezzo del latte. Questa tendenza si avvertirà probabilmente maggiormente nelle produzioni non DOP, ovvero quelle che possono attingere per le produzioni ad una mercato della materia prima più ampio. Per quanto riguarda le produzioni DOP, poiché le si possono considerare rispetto all’approvvigionamento di latte nicchie di mercato chiuse, per quanto comunicanti con il più ampio mercato del latte, può essere che l’effetto sul prezzo della materia prima sia più contenuto.

Spostando ora l’attenzione su alcune specificità del comparto, riteniamo che le principali differenze le si riscontrino guardando separatamente al segmento del fresco e a quello del duro-stagionato. Il comparto del fresco in Italia è dominato su larga scala da tre player: il Gruppo Lactalis Italia che detiene circa il 30% del mercato, le Private Label prodotte come abbiamo visto nell’ultimo capitolo del rapporto di ricerca da soggetti

differenziati che detengono un secondo 30% e Granarolo con il 10% circa del mercato. Le principali sfide che questo segmento deve affrontare sono, oltre a quelle comuni a tutto il comparto, date innanzitutto dalla shelf life limitata dei prodotti. La data di scadenza che generalmente arriva al massimo fino ad un mese dal momento della produzione ha implicazioni significative sull’organizzazione della logistica, sul packaging, sul rapporto con la Grande Distribuzione. Quest’ultima infatti tende a prevedere, anche per via contrattuale, che i prodotti in vendita abbiano un determinato periodo minimo “di vita” nel momento in cui vengono consegnati. Questo naturalmente comporta vincoli all’organizzazione della produzione dei player di questo mercato. Inoltre, la presenza di una scadenza in tempi piuttosto limitati limita anche le possibilità di esportazione, se infatti il mercato europeo può essere servito dalla produzione italiana, risulta difficile raggiungere aree extra-europee portando quindi alla necessità, ai fini dell’espansione su scala globale, di produrre localmente. Anche per questa ragione, unitamente a quella di avere relazioni solide e sedimentate con la GD e in generale con i canali commerciali, in questo segmento di mercato la presenza in Italia di gruppi multinazionali è già da anni molto importante. Per le aziende italiane di questo comparto è molto difficile trovare uno spazio di rilievo sul mercato sia nazionale che internazionale, salvo la possibilità offerta dal segmento PL che presenta però le caratteristiche di bassa marginalità ed elevata flessibilità descritte in precedenza.

Sul mercato del fresco sono entrati recentemente, tendenza che peraltro potrebbe proseguire in futuro, aziende il cui core business era fino a poco tempo fa sul comparto lattiero. Offrendo questo, come ben documentato da alcune analisi (Pieri 2013, Dazzi e De Angelis 2012), marginalità sempre più ridotte alcune imprese sono spinte a “cambiare pelle” spostandosi sul comparto caseario. Perché questo avvenga sono necessari ingenti investimenti sia sul lato produttivo che su quello commerciale, che comprendano azioni volte all’ampliamento della gamma prodotto. L’ampliamento della gamma è una tendenza comune alle imprese che operano sul segmento del fresco, soprattutto per quelle che mirano ad incrementare le esportazioni. Come i nostri stessi studi di caso hanno fatto emergere “all’estero ci si va con lo stagionato”, in particolare con il grana che sui mercati internazionali come in Italia è considerato un prodotto italiano di grande qualità che agisce da “generatore di traffico” o “prodotto civetta” all’interno della GD.

Il comparto del fresco si contraddistingue inoltre per i maggiori spazi di innovazione di prodotto e di processo rispetto al segmento dello stagionato. Innanzitutto perché ad eccezione della Mozzarella di Bufala ed altre produzioni minori, il fresco non è costretto da disciplinari produttivi, consentendo quindi un’elevata flessibilità nelle modifiche al prodotto, alle metodologie di produzione e naturalmente all’approvvigionamento della materia prima. Le possibilità innovative del prodotto sono esemplificate dall’esistenza, all’interno di alcuni player principali, di centri di R&S che, al momento attuale, lavorano su progetti legati allungamento del tempo di vita del formaggio fresco, la trasformazione del packaging, nuove tecnologie produttive e nuovi

prodotti. Sebbene possa essere inatteso, è bene segnalare che in questo comparto, di base notevolmente tradizionale, si è assistito all’introduzione di innovazioni radicali che hanno riscontrato un notevole successo tra i consumatori, basti pensare al caso delle Sottilette o del Philadelphia. Anche i processi produttivi si sono trasformati in misura notevole negli ultimi 15 anni con l’introduzione di elevati livelli di automazione industriale. Questo naturalmente ha avuto un impatto sia sul lavoro e che sulle competenze. Per la produzione della maggior parte dei formaggi freschi, le figure professionali di più basso livello hanno sperimentato una riduzione del lavoro fisico a fronte dell’accrescimento delle competenze necessarie per operare in un contesto di lavoro meccanizzato. Per quanto riguarda invece le figure professionali gestionali o direttive, le competenze necessarie si sono trasformate da quelle di tecnologia casearia tradizionale verso l’ingegneria del processi o meccanica, come emerso dai nostri studi di caso: “le competenze tradizionali di tecnologia casearia si fondono con quelle di ingegneria dei processi”. Questa fusione avviene per mezzo della formazione ma soprattutto attraverso il learning by doing ovvero per mezzo dell’esperienza lavorativa.

Volgendo lo sguardo al comparto del formaggio duro-stagionato, con particolare riferimento ai grana, produzioni di fondamentale importanza per il mercato italiano e per le regioni Lombardia ed Emilia-Romagna, emerge un quadro molto differente rispetto a quello appena presentato. Innanzitutto, come abbiamo visto, la produzione dei grana e in generale di molti formaggi duri e semiduri DOP è rigidamente vincolata dai disciplinari produttivi. Questo fa sì che le potenzialità innovative sul prodotto siano minime, al netto di innovazioni relative al packaging e al formato in cui il formaggio viene venduto. Anche i processi produttivi sono regolamentati dai disciplinari sebbene abbiano vissuto un processo di innovazione dato dalla possibilità di meccanizzare alcune fasi. I nuovi formati di vendita, ma soprattutto gli investimenti per incrementare le esportazioni di questi prodotti, hanno comportato un’esigenza di rinnovamento delle competenze professionali: non solo è necessario sapere utilizzare le macchine atte a questo scopo ma è soprattutto fondamentale riuscire a gestire in modo corretto il sistema delle etichettature soprattutto quando il prodotto è destinato a diversi Paesi nel mondo, in diverso formato. L’innovazione quindi è arrivata anche in questo segmento così tradizionale, soprattutto nei casi in cui l’esposizione verso l’estero è aumentata, e ha comportato, per le imprese vi hanno peso parte, significativi investimenti. I formaggi duri e in particolare i grana, come già detto sopra hanno al momento attuale un forte potenziale di crescita nel mondo e rappresentano anche per chi opera nel segmento del fresco il ponte per entrare nei mercati stranieri. Anche nei duri l’affermazione delle PL è stata significativa e pertanto numerosi produttori si sono attrezzati per operare in questo segmento, sebbene i riflessi sull’organizzazione del lavoro dato dalla produzione per le PL e dal rapporto con la GD in generale, siano minori rispetto al comparto del fresco. La lunga vita che un formaggio stagionato ha fuori dal frigo fa sì che la flessibilità produttiva richiesta su fresco in questo caso vada a interessare prevalentemente i reparti

di confezionamento. Sullo stagionato infatti è in questi reparti che si possono trovare le criticità sul lavoro illustrate in merito al comparto del fresco.

I due territori oggetto di particolare attenzione in questo lavoro, Lombardia ed Emilia-Romagna, rappresentano il punto di caduta delle dinamiche sopra descritte. Come abbiamo visto nel rapporto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono le prime due regioni italiane per produzione casearia. Tuttavia la produzione di formaggio dei due territori sono profondamente differenti, in quantità e qualità. La produzione lombarda, più elevata di quella emiliana di oltre il doppio, è altamente differenziata, il 40% è composta da formaggi freschi, il 34% di formaggi duri, il 16% a pasta molle e il 10% a pasta semidura. Molto diverso è il grado di specializzazione dell’Emilia-Romagna dove ben l’80% della produzione è composto dai formaggi duri, seguita a distanza dalla quota del 17% di formaggi freschi mentre i formaggi semiduri e molli di fatto sono assenti. Oltre ai volumi totali e alla differenziazione produttiva profondamente differenti appaiono anche le strutture produttive del comparto dei rispettivi territori. In Emilia-Romagna la produzione è altamente frammentata rispetto alla Lombardia: in questa seconda regione 235 operatori producono oltre 419 mila tonnellate di formaggio mentre in Emilia- Romagna ben 381 ne producono “solo” 148 mila tonnellate. Questi risultati derivano dal fatto che la struttura produttiva lombarda, rispetto a quella emiliano-romagnola, è molto più concentrata con imprese di maggiori dimensioni, caratteristica comune sia alla produzione del Grana Padano che a quella del comparto del fresco. Distingue le due realtà anche il rapporto che la trasformazione ha con l’approvvigionamento del latte. In Emilia-Romagna la maggior parte del latte per la trasformazione casearia, per le sue caratteristiche intrinseche, non può trovare altra collocazione sul mercato che non sia la trasformazione in Parmigiano Reggiano1. Diversamente il latte destinato a Grana Padano, può trovare una collocazione sia in ambito alimentare che nella trasformazione di altri formaggi. In sostanza quindi, guardando al latte destinato a queste produzioni nel caso del Grana Padano la produzione del latte è collegata al più ampio mercato lattiero. Diversamente, nel caso del Parmigiano Reggiano, si assiste ad una condizione di effettiva nicchia produttiva sostanzialmente chiusa a comunicazioni con l’esterno. In sintesi i comparti caseari di Lombardia ed Emilia-Romagna hanno molto poco in comune: nel primo caso si trovano realtà di maggiori dimensioni, diversificate e generalmente più innovative grazie alla presenza importante del semento del fresco da un lato e alla presenza di realtà trasformatrici di Grana con significativo potere di mercato e propensione all’export. Il caseario dell’Emilia-Romagna, quasi completamente specializzato nella produzione di una tipologia di formaggio con caratteristiche di prodotto molto peculiari, composto da un tessuto produttivo quasi polverizzato e fortemente eterogeneo al suo interno, appare “dall’alto” un sistema con significative fragilità rispetto alle possibilità di sviluppo e rafforzamento del proprio prodotto nel

mondo. Queste fragilità si ripercuotono, come abbiamo visto, sul prezzo di vendita e sulla capacità di governare la filiera nella sua completezza, dalla produzione sino alla vendita.

La conoscenza di queste differenze, all’interno del comparto caseario e tra i due territori in analisi, è a nostro avviso fondamentale al fine di individuare le più opportuni azioni di policy, che dunque possano intervenire sulle potenzialità e criticità comuni ma che al contempo possano anche agire sulle singole specificità di prodotto e di territorio. In questo modo queste azioni possono contribuire a rafforzare un comparto che nel suo complesso svolge un ruolo importante per la crescita economica o occupazionale non solo delle regioni in analisi ma di tutto il territorio nazionale e di cui si prevedono per i prossimi anni ampie possibilità di crescita.

 

1 Cfr. “Piano di regolazione offerta Parmigiano Reggiano 2014-2016”, pag.8-9, http://www.parmigianoreggiano.it/consorzio/piano_produttivo_2014_2016/default.aspx