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Il contenuto e il senso del lavoro sono esigenze di giustizia sociale – Intervista ad Alain Supiot

Traduzione libera[1] dell’intervista ad Alain Supiot realizzata da STÉPHANE BÉCHAUX e FRANÇOIS DESRIAUX per Santé et Travail nel Gennaio 2021.

Alain Supiot: giurista, professore emerito al Collège de France, è uno dei più eminenti giuristi francesi in materia di diritto sociale. Molto critico sull’indebolimento dell’ordine pubblico sociale, ci lascia la sua analisi sulla crisi sanitaria e l’avvenire del lavoro.

Quali insegnamenti estrae dalla crisi epidemica ed economica che ha caratterizzato il 2020?
Questa crisi mostra il carattere illusorio di certi discorsi sull’economia che sarebbe ormai divenuta immateriale, o interamente nelle mani dei«manipolatori di simboli», per riprendere l’espressione dell’economista americano Robert Reich. Con il Covid-19, i lavoratori «routinari», mal pagati e di cui alcuni annunciavano la prossima sostituzione con le macchine, si sono rivelati«essenziali». Bisogna dunque tirare le somme della centralità dei compiti essenziali, migliorando i redditi e le condizioni di lavoro di chi li svolge.
La grande caratteristica della specie umana è la divisione del lavoro. Non ci ha lasciato con il fordismo ed è una costante dell’organizzazione di tutte le società. Questa crisi ci ricorda l’interdipendenza degli uni rispetto agli altri. Instituire una comunità di lavoro, che sia alla scala dell’impresa o della nazione, richiede la messa in campo di meccanismi di solidarietà efficaci. Mentre ora, da molti anni, ci si sforza di decostruirli. Nello stesso tempo che il confinamento esacerba la polverizzazione della società in individui, tale polverizzazione mostra i suoi limiti: spinta all’estremo, questa concezione non è vivibile.

La crisi sanitaria ha anche rafforzato l’economia delle piattaforme con condizioni di lavoro spesso degradate. L’uberizzazione del mercato del lavoro è ineluttabile?
La rivoluzione digitale si accompagna a molteplici tentativi di promuovere forme di lavoro al di là del lavoro salariato. Del resto, non c’è nulla di nuovo in questo. Negli anni ’60, l’industrializzazione dell’agricoltura si è accompagnata ai«contratti di integrazione» che assoggettano i contadini ai marchi dell’agroalimentare e li privano di ogni autonomia nel loro lavoro, senza d’altronde riconoscergli la condizione di dipendenza. Questi cosiddetti indipendenti non controllano nulla, ma devono lavorare enormemente per portar via un reddito spesso inferiore al salario minimo garantito orario (ndt: in Francia esiste un salario minimo chiamato SMIC). E non possono ottenere la riqualificazione della relazione di lavoro in un contratto di lavoro perché, nel 1964, il legislatore è intervenuto per impedirglielo, così come tenta oggi di impedirlo ai lavoratori«uberizzati».  Quando sappiamo che il settore agricolo conosce il più elevato tasso di suicidi, ciò non promette bene per i lavoratori delle piattaforme…
Questa “terza via”, tra il lavoro salariato e l’indipendenza, è un’impasse sociale. Ovunque nel mondo, compresi gli Stati Uniti, i tribunali hanno riqualificato in contratto di lavoro l’impiego dei corrieri o degli autisti sotto piattaforma. Ai miei occhi, è essenziale che il giudice resti padrone della possibilità di accordare o no questa riqualificazione. Oggi, sotto la pressione di un’intensa azione di lobbyng, il legislatore sembra accanirsi a risparmiare le piattaforme dal campo di applicazione del diritto del lavoro. Si tratta di un gioco molto pericoloso di cui non si conoscono davvero i rischi. La concezione degli algoritmi dovrebbe dunque essere oggetto di un dibattito contraddittorio e allo stesso tempo entrare nel campo della negoziazione collettiva. Per questo serve un quadro legislativo. Altrimenti, non accadrà nulla, le piattaforme si accontenteranno di mostrare le loro carte senza valore e senza effetti.

La crisi sanitaria ha comunque assestato una formidabile accelerazione al telelavoro. Dobbiamo rallegrarcene?
Le lenti economiche sono cieche al lavoro invisibile, quello che si gioca al di fuori del mercato e in particolare l’educazione dei bambini. Nelle classi popolari, soprattutto tra le madri sole, la deregolazione del tempo di lavoro mina la capacità educativa della famiglia. Poi ci rammarichiamo di fronte al drammatico calo del livello scolastico in certe zone e dei giovani lasciati a loro stessi che sprofondano nella delinquenza. Il mio timore è che il telelavoro finisca per amplificare tali derive.
Nel XIX secolo la rivoluzione industriale ha rotto i ritmi della vita umana scandita dalla natura. Da allora, il compito del diritto del lavoro è consistito nel fissare regole di conciliazione dei tempi che tengano conto della vita fuori dal lavoro, sia essa sociale o familiare. È inconcepibile che il telelavoro prosperi al di fuori di questo quadro, di tali obblighi. In questo è essenziale che la sua implementazione non rilevi esclusivamente dai contratti individuali o degli accordi aziendali. È necessario un quadro collettivo ben più ampio, che si imponga a tutte le imprese.

Non è questa la strada imboccata, il legislatore spinge all’inversione delle norme e alla priorità dell’accordo aziendale.
Ha ragione. Ma questa ambivalenza non risale a ieri. Nel 1982, le leggi Auroux volevano chiaramente introdurre dei meccanismi democratici all’interno delle imprese. Ma prima ancora di queste leggi, due prime ordinanze hanno dato alle imprese la possibilità di derogare in certi casi alla legge stessa. Certi dirigenti vedevano allora nel “contratto collettivo aziendale” un mezzo di sottrarsi al codice del lavoro. La negoziazione del lavoro è stata concepita come uno strumento di polizia sociale della concorrenza. Ma oggi si tende a subordinarlo alla libera concorrenza, mentre non c’è da farne uno strumento di concorrenza. Dalle ordinanze di Macron, l’articolo L2261-25 del Codice del Lavoro prevede che il ministro del lavoro possa rifiutare l’estensione di un accordo collettivo “per dei motivi di interesse generale, soprattutto per indebito pregiudizio nei confronti della libera concorrenza”. Si tratta di un completo ribaltamento! L’indebolimento continuo dei contratti di settore rompe l’equilibrio tra le forze senza il quale la negoziazione collettiva aziendale non è più uno strumento di democratizzazione, ma di sottomissione collettiva. Ciò contravviene alla convenzione 135 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che impone di garantire “che la presenza dei rappresentanti eletti non possa servire all’indebolimento della posizione dei sindacati interessati” (Art. 5).

Questo implica una qualche strategia da parte sindacale?
Storicamente, i sindacati hanno ammesso che la questione da discutere fosse quella del giusto equilibrio tra le prestazioni economiche scambiate nella relazione di lavoro: tempo contro denaro. Si sono battuti contro lo sfruttamento del lavoro, non contro l’oppressione nel lavoro.  Il movimento operaio ha così eliminato il contenuto e il senso del lavoro dalla nozione di giustizia sociale. Oggi la rivoluzione informatica e la crisi ecologica devono obbligarci a rimetterceli. Ciò significa non limitare il ragionamento alla sola ripartizione della ricchezza. La questione da aggiungere al campo della giustizia sociale è quella di una giusta divisione del lavoro. Bisogna pensare che ciò che si produce e il modo in cui lo si produce, sono anche quelli oggetto di discussione collettiva all’interno dell’impresa. Finché non lo si farà, non ci sarà una vera democrazia economica. Le questioni in ballo riguardano la salute e sicurezza sul lavoro, l’ecologia e l’utilizzo dei nuovi strumenti.

Quali sarebbero i punti di appoggio per iniziare questo cambiamento?
La salute e la sicurezza sul lavoro sono una leva giuridica estremamente potente. Affermare che le persone non debbano morire o ammalarsi al lavoro è un argomento difficilmente discutibile e questo vale anche per i più liberali. Ai suoi tempi, anche Margaret Tatcher l’ha ammesso.
È tanto più urgente affrontare la questione in quanto con la governance del lavoro attraverso i numeri e i cattivi usi dell’informatica si assiste a un aumento considerevole dei danni alla salute mentale.
Prima il lavoro poteva renderci stupidi, oggi ci rende pazzi! Se integrassimo la salute mentale negli obblighi in materia di salute e sicurezza in capo al datore permetteremmo al giudice di entrare nella scatola nera del management. E questa è una leva formidabile per costringere le imprese a un buon uso degli strumenti digitali.

Dobbiamo quindi uscire a ogni costo da questo “governo con i numeri”, titolo di una delle vostre opere?
Le imprese si sono rinchiuse in una rappresentazione cifrata della loro attività, con tabelle e percentuali. Questo governare attraverso i numeri fa pensare a un Gosplan sovietico. Alla fine dell’URSS, i dirigenti non sapevano più ciò che accadeva nel Paese, ma fissavano comunque degli obiettivi di produzione. Questo rischio minaccia oggi le nostre imprese, ormai guidate da fogli Excels. I dirigenti devono invece fare appello al sapere dei loro salariati, che conoscono fin troppo bene ciò che succede. Anche i sindacati restano uno strumento potente per restare ancorati alla realtà delle esperienze, necessariamente diversificate. La rivoluzione informatica potrebbe andare in questo senso. Ma ciò suppone margini di autonomia, creatività, concertazione e riflessione collettiva.

[1]Per traduzione libera intendo due cose: la prima è che nessuno me l’ha chiesta, la seconda è che non essendo un traduttore potrei essere meno preciso sulla forma.