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publish or perish: università e metrica del merito

Qualche giorno fa esce su l’Espresso l’ennesimo articolo choc – sì, si può scrivere anche così – sul sistema baronale dell’università. In questo caso la vittima è un ricercatore dell’Università degli Studi di Milano, Matteo Fini.

La storia è tristemente nota. Il ricercatore che studia, quello bravo, che ha un’autostrada davanti a sé, che può farcela “da solo”, dominando come un surfer le pieghe di un sistema che una volta conosciuto può essere gestito, col quale si deve scendere a compromessi ma che poi… ops… lo tradisce .

Pluf. Il surfer cade dalla tavola, non affoga, non è un eroe, non è nessuno. Neppure gli squali lo attaccano, distratti da quello nuovo… da quello che… “guarda come va bene su quell’onda… cavolo questo sì che andrà lontano”.

Il libro denuncia è l’ultimo grido, disperato, quello di chi ha perso tutto e nonostante tutto quel tutto se lo gioca. Non è il grido di chi chiede aiuto, quello è riservato a chi ha ancora la speranza. L’ultimo grido è quello di chi manda tutti affanculo, la bestemmia, la consapevolezza, il realismo: il sistema è malato. Ecco, sto per dirlo: non è meritocratico.

La parola magica. L’ha detta: MERITO. Lui si meritava quel posto, lui si meritava più considerazione… per fortuna Repubblica e l’Espresso sono attentissimi alle magie ed ecco finalmente un po’ di meritata attenzione. Bravo o no, la parola magica funziona così. D’altronde non è che uno dice “apriti sesamo” se ha la chiave in tasca. “Apriti sesamo” lo dice chi non ha la chiave o chi non trova la serratura, così come “MERITO” lo dice chi si è appena accorto che non potendo passare dalla porta prova almeno a farlo dalle finestre, fossero anche solo quelle dei browser di noi sfaccendati lettori di Repubblica e L’Espresso. Perché è vero che col merito all’università non si va da nessuna parte, ma se urli “MERITO” almeno su Repubblica un posticino lo trovi.

Sia chiaro, non ce l’ho con il ricercatore. O almeno non ce l’ho con lui più di quanto non ce l’abbia con tutti quelli che pur consapevoli di ciò che gli succede intorno provano l’ebbrezza di sentirsi eletti, diversi dagli altri e puntano tutto sul “a me non accadrà”. Perché pensare che “io sono bravo e a me non accadrà” è solo la prima parte di quella distorsione della realtà detta  self serving bias che lascia intendere a chi vi incappa – e questa è la seconda parte, per me inaccettabile –  che l’insuccesso degli altri sia una loro responsabilità.

Non ce l’ho con lui, dicevo, anche se, probabilmente è anche grazie a lui che il sistema baronale a molti sembra il solo possibile e, quel che peggio, immutabile. Non ce l’ho con lui, no, ma certo che il dubbio sul suo status di vittima mi viene. Quante ore di lezione ha svolto gratuitamente? Quanti esami? Quanto ricevimento? Quanti favori? Quanti caffé? Con quanto impegno ha rattoppato i buchi di un sistema che si regge sull’informalità del do ut des? Quanti compiti ha svolto per non contraddire il suo mentore? Magari proprio mentre il suo mentore era lì che toglieva la tavola sotto i piedi di qualcun altro.

In realtà, il ricercatore, fa bene ad essere arrabbiato. Quel lavoro forse se l’era meritato. Non nel senso che intende lui però, non perché ha pubblicato più o meglio degli altri, ma perché lui ha fatto tutto quello che gli è stato detto avrebbe dovuto fare per arrivare lì dove voleva. Il terreno sul quale ha accettato di giocare però, non è un terreno facile: ha provato e ha perso. Chi sceglie di stare su quel terreno sa che dovrà competere non con le competenze et similia, ma con la disponibilità, l’accondiscendenza. Bravo, sì, è meglio, ma non troppo. Perché il mentore non deve mai sembrare vecchio o sorpassato, non deve mai fare brutta figura con gli altri mentori. E per quello non ha bisogno di gente brava, ma di una corte composta da ingenui, da ambiziosi, da scopabili, da gente che non ha bisogno di un salario – ah già, perché è ovvio che l’Università non ha i soldi. E bene o male qualcuno più ingenuo, più ambizioso, più scopabile, meno interessato allo stipendio lo si trova sempre.

Ecco, non è vero che il sistema non è meritocratico. È però vero che a costituire il merito non sono né la bravura né la competenza. Anche perché, in quel caso, non vedo come il concetto di meritocrazia possa coesistere con quello di competizione1, tanto più nel campo della ricerca in cui nessuno fa niente da solo e densa è la dimensione sociale.

Dài, parlando seriamente, chi è che pensa davvero che la bravura e la competenza di qualcuno siano grandezze misurabili tali da poter essere confrontate con quelle di un altro portatore sano di bravure e competenze? E, in secondo luogo, ammesso che fosse proprio così, di quale competenza stiamo parlando, di quale bravura?

In realtà, per quanto riguarda il primo punto, al momento domina la vulgata che pone nelle quantità, di citazioni ottenute, di pubblicazioni realizzate etc., le basi di calcolo per approssimare la bravura di qualcuno. Il numero e la classificazione come giustificazione inoppugnabile2 – il vecchio ma non di meno à la page “chi ce l’ha più lungo”. Sulle distorsioni di questo meccanismo sono state scritte moltissime cose3 articoli su riviste scientifiche, ma anche veri e propri botta e risposta in forma più divulgativa4. Non si tratta di una novità insomma, anche se tuttora mi lascio sconcertare dagli esiti: dipartimenti che creano apposite riviste scientificissime giusto per pubblicare e citare i propri membri o sessioni in convegni create ad hoc, fino alla selezione degli argomenti di indagine in base all’effettivo interesse che sarà possibile riscontrare sul mercato delle pubblicazioni (o sul mercato tout court). Per intenderci: che mi importa di trattare quel fenomeno, quella malattia etc se poi interessa comunità troppo ristrette o troppo povere e nessuno mi cita? o mi pubblica?

Il secondo punto è più sottile del primo. Ammesso che bravura e competenza siano misurabili, di quale bravura e competenza stiamo parlando o, per riprendere la metafora di prima, serve davvero averlo più lungo? Perché questa domanda è alla base di un altro dei temi toccati dal ricercatore di cui sopra. Pur avendo un più lungo elenco di titoli, infatti, il ricercatore in questione si vede battuto a un concorso da una laureanda. Scandalo. Certo, una volta definite quelle regole gli estremi per lo scandalo ci sono eccome, ma dover bandire un concorso pubblico dai risultati inoppugnabili per ogni briciola da raccogliere è, secondo me, ancora più scandaloso. Serve davvero avere il titolo di studio più alto per fare quella determinata mansione? O avere più pubblicazioni? Mi chiedo, e lo faccio davvero, se non sia il caso di ripensare la possibilità di affidamenti diretti a certe condizioni, almeno per risparmiare i soldi e i tempi di concorsi e di chi vi partecipa, per non dire della frustrazione di chi tanto non passerà mai.

Parlare del ricercatore, si sarà capito, è solo un artificio. Questi ragionamenti possono valere su scale ben più ampie. Molti tra i miei amici e colleghi provengono o stanziano in scuole di dottorato sparse per l’Italia. Le logiche che si applicano sulle e nelle scuole di dottorato spesso non sono difformi da quelle applicate sui singoli ricercatori. Per ottenere l’accreditamento, oltre che un tot di borse, la scuola deve avere un certo punteggio. Il punteggio cresce inserendo nel collegio i docenti più quotati (secondo altri indicatori ovviamente), il punteggio cresce se i dottorandi pubblicano, il punteggio cresce se i dottorandi concludono in tempo il loro percorso etc. Il risultato del folle inseguimento della performance indicizzata è duplice. Da un lato c’è il continuo ricatto morale verso i dottorandi, del tipo: se non fai così non riusciremo ad avere l’accreditamento l’anno prossimo e orde di aspiranti dottorandi non potranno soddisfare la loro sete di conoscenza; dall’altro lato c’è il totale disinteresse rispetto a tutto ciò che non è indicizzabile, quantificabile, contabile. Publish or perish sì, ma mica su tutto.

Insomma, pubblica bene o perisci male. L’importante è che tutto sia fatto in economia. Vuoi la disponibilità di un computer? Vuoi un software per fare ricerca? Vuoi qualcuno che ti aiuti ad usarlo? Ma dai… Vuoi fare ricerca? Vuoi davvero il rimborso per andare a quella conferenza? No, non ci sono i soldi.

I soldi mancano sempre in università, ma sembra che nessuno lo dica. O meglio, lo si dice di continuo, ma solo ad alcuni. Al netto delle manovre più oscure, di cui ogni settimana House of Cards ci offre importantissimi esempi, di solito, la carenza di soldi si palesa gerarchicamente e non è colpa di nessuno. Cioè, non ci si sente mai dire che è responsabilità delle strampalate scelte politiche di un governo,  o del rettore o del papa o che ne so, no, è che va così. Però va così solo per alcuni.

Che i soldi siano disponibili in funzione del potere sulle persone non sarebbe una grande novità. C’è però da dire che questo sta modificando la prospettiva con la quale chi sta dentro guarda l’ateneo. L’università è sempre di più un luogo di transito di cui a nessuno – esagero – interessa nulla. Una dinamica non diversa da quella avvenuta nei luoghi di lavoro privati con l’avanzare dei contratti a termine. Molti di quelli che vi entrano cercano la certificazione da spendere fuori, non il titolo di studio che tanto vale più che altro dentro l’accademia stessa – voglio dire, non è che se hai un titolo di studio più alto allora il sistema di imprse o quello pubblico ti premia e sa cosa fare della conoscenza aquisita. Nel peggiore dei casi entri, ti turi il naso per tre anni di dottorato e poi via. Al massimo trovi il modo di galleggiare qualche tempo, ma di certo non ci si incazza e tutto sembra immobile.

Da una parte i più precari, coloro dai quali ci si dovrebbe aspettare più reattività, hanno paura. Sapersi costantemente a rischio non è certo la migliore posizione per l’incazzatura. Ma quando il meccanismo è innescato e – ripeto, non credo lo sia ovunque – non si incazzano nemmeno gli altri. Quelli più stabili. La gran parte di questi sono riconducibili a due gruppi: i cinici, che fanno il loro e stanno, anche perché 1. ” è chiaro che pure se mi incazzo non è che cambia molto” e 2. “ho 80 anni e se mi incazzo muoio”; il secondo gruppo è invece quello dei survivers – non sopravvissuti, ma proprio sopravviventi. La strategia tipica è complessa. Farsi notare il meno possibile da chi sta sopra, ma regnare con arroganza e  sfrontatezza su chi sta sotto. Restare con un piede dentro ogni staffa, ogni scarpa, ogni ciabatta o pattina che sia scarsamente presidiata. I survivers non si oppongono a nulla che venga dall’alto. Se è positivo lo trattengono, se è negativo però lo afferrano al volo e lo spingono con più forza sul gradino subito sotto. Sono loro che ti dicono che non possono davvero acquistare una licenza del software chePeròDeviImparareAdUsareECheServePerFareRicercaEPubblicarePerché cavolo sì… devi pubblicare. Altrimenti saranno i cittadini, gli studenti, i posteri, i tuoi figli e i figli di loro a subire le conseguenze della tua pigrizia. Sono quelli che ti dicono che la tesi va consegnata entro la scadenza per non far perdere punti alla scuola, tanto pare che farla male non incide sul punteggio.

Sono quelli che non rischiano, sono quelli che godono a vedere cadere gli altri, sono quelli che quando un’altra università è in difficoltà pensano che in quell’università se la siano davvero voluta. Sono quelli che pensano di poter dominare le pieghe del sistema. Sono i surfer da cui sono partito. Quelli che ce la fanno di sicuro perché sono bravi, ma che se non ce la dovessero fare è colpa di un sistema malato.

Sono un po’ quegli imprenditori e ultraliberisti di varia natura che ancora euforici per le ultime deregolamentazioni pensano di poter competere con i “cinesi” facendo i “cinesi” a loro volta, salvo poi accorgersi che non erano abbastanza “cinesi” e che allora forse è meglio che ‘sti mercati fossero stati  un po’ meno aperti e che per il futuro si mettano delle regole, perché di ‘sti “cinesi” non se ne può davvero più.

Sono quelli che non chiedono aiuto a quelli come loro, perché come loro non c’è nessuno. Loro sono bravi, male che va mandano tutti a cagare scrivendo un libro. E anche se nessuno lo legge non importa, tanto c’è un ISBN, fa curriculum no?

 

1 http://www.theguardian.com/commentisfree/2014/aug/05/neoliberalism-mental-health-rich-poverty-economy?CMP=twt_gu

2 Una riflessione dall’ultimo libro di Alain Supiot particolarmente pertinente sulla natura imprenditoriale della contabilità: le mot comptable est trompeur: la comptabilité ne compte pas (au sens de dénombrer des choses de même nature), elle évalue; et elle n’évalue pas seulement ce qui est, mais ce qui peut advenir en utilisant la monnaie comme un moyen de domestiquer l’avenir (Alain Supiot, 2015, La Gouvernance par les nombres, Fayard; pos. 2003 Kindle Version) (la parola contable è fuorviante: la contabilità non conta (nel senso dell’enumerare cose della stessa natura), la contabilità valuta; e non valuta solo ciò che è, ma ciò che potrà essere utilizzando la moneta come un mezzo per addomesticare il futuro).

3 Scegliere tra gli articoli dedicati al tema è difficile. Questo ricordo mi aveva particolarmente interessato perché a) è di ricerca e b) riguarda la misurazione H-index e perché c) conclude ponendo la questione dell’impatto sulla ricerca della misurazione: http://www.timeshighereducation.co.uk/news/the-predicted-results-for-the-2014-ref-are-in/2017192.article

4 Mi riferisco al dibattito tra il sito ROARS, che ha pubblicato un articolo di Alessandro Dal Lago sull’ANVUR e la risposta del direttore Roberto Torrini.  Si trattava del 2012 credo, ma ovviamente basta fare una ricerca su google per leggerne di ogni. Un articolo che ho apprezzato è questo, sempre su il Manifesto, di Piero Bevilacqua. Più recente, ancora su ROARS: la supercazzola ANVUR .